“Lo stigma è una barriera invisibile che può essere più difficile da superare della condizione stessa“, afferma Patrick Corrigan, psicologo e scrittore statunitense, studioso di fama mondiale riguardo lo stigma.
Lo stigma è come un “marchio” che segna chi ne viene additato, poiché percepito come “diverso”, “strano”, “malato”. E ciò ha a che fare con ciò che chiamiamo neurodiversità, un diverso funzionamento delle capacità cerebrali, cognitive e comportamentali.
Nonostante i progressi culturali e scientifici, nel 2025 chi è neurodivergente si scontra ancora con diversi tipi di stigma. Lo stigma, “interiorizzato”, trasforma anni di messaggi negativi in vergogna e sfiducia nelle proprie capacità.
Molte persone imparano presto a mascherare comportamenti e difficoltà per adattarsi a un mondo modellato sulle esigenze dei neurotipici: forzare il contatto visivo, trattenere movimenti spontanei o nascondere difficoltà di concentrazione diventano strategie di sopravvivenza sociale, ma portano spesso ad ansia, depressione, burn-out e perdita di autenticità.
Per lungo tempo, la medicalizzazione ha ridotto l’individuo alla diagnosi e in alcuni contesti culturali persistono tabù o interpretazioni errate che impediscono il riconoscimento e il supporto. A questo si aggiunge la discriminazione istituzionale, con regole, ambienti scolastici o luoghi di lavoro non adatti alle diverse sensibilità e bisogni.
La neurodiversità comprende condizioni come autismo, ADHD, dislessia, sindrome di Tourette e altre differenze nel funzionamento neurologico, sempre più considerate varianti naturali della condizione umana e non patologie da “correggere”.
La psicologia e la psicoterapia di oggi affrontano questi ostacoli con approcci neurodiversity-affirming, che riconoscono il valore delle differenze e puntano su interventi basati sui punti di forza, percorsi di de-masking per recuperare l’autenticità, formazione degli operatori alla competenza culturale, creazione di spazi sensorialmente inclusivi e collaborazione con scuole e comunità.
E’ quanto perseguito da Indaco lo spazio che cura, a favore di stili di vita inclusivi e aperti all’accettazione della neurodiversità.
L’obiettivo non è cambiare la persona per adattarla al contesto, ma trasformare il contesto stesso per renderlo accogliente e accessibile. In questo scenario, lo psicologo non è solo un clinico, ma un facilitatore di inclusione e un promotore di cambiamento sociale, contribuendo a una cultura che non si limita a tollerare la diversità, ma la considera una risorsa fondamentale per tutti.
